Chi si nasconde dietro la maschera che si aggira sul palco dei Mo’ Better Swing?
Per il lancio del suo ultimo album, Swinky, la band milanese ha deciso di sorprenderci così…
Una tendenza lanciata dai Planet Funk, seguiti anni dopo da Liberato e da altri artisti. Anche voi avete scelto di tornare in scena a volto coperto, quello di un misterioso frontman. Come mai questa decisione?
Forse il paragone più azzeccato, per quanto lontani anni luce come musica e stile, è quello con gli Slipknot. Certo le loro maschere si rifanno a film horror e le indossano tutti, mentre nel nostro caso vale solo per il cantante e non sempre è una vera e propria maschera, ma il significato che danno al travisamento del volto che è estremamente interessante. Di concerto con il volto nascosto, infatti, loro si fanno identificare con un numero o con un codice a barre. Lo trovo un espediente geniale e particolarmente significativo; negata è infatti l’identità del singolo in senso generale, non tanto i connotati, e questa mossa assume un preciso significato politico, di denuncia sociale. Anche per il nostro frontman, benchè in tono più leggero e scanzonato, è così. L’identità negata del personaggio che dovrebbe essere il più rappresentativo, sposta il focus su altri fattori, che per noi sono decisamente più importanti: il collettivo, la musica, i testi, il ritmo, lo stile. Sfido chiunque, solo per fare un esempio recente, ad immaginare i “Maneskin” senza l’icona di Damiano, la sua sfrontatezza, il suo carisma. Tutto il nuovo corso dei “Mo’ Better Swing” è una presa di posizione, a partire dalla musica, i testi e l’immagine: in questo caso si tratta di disinnescare il bisogno di immagine, dell’ X-factor, dell’apparire anche a dispetto del resto, che è invece molto più importante.
Un mix tra swing e funk. Quali sono le caratteristiche principali del vostro ultimo lavoro, Swinky?
“Swinky” è una metafora. Praticamente, nei suoi brani più rappresentativi, l’album è integrazione di stili diversi (lo swing, il funk e persino il rap), su un terreno comune rappresentato dalla velocità dei bpm, dal contenuto dei testi, dal suono della band. “Swinky” diventa perciò, metaforicamente, occasione di incontro ed integrazione tra diversi, sulla base di ciò che ci accomuna, anche solo semplicemente far parte di uno stesso mondo, in uno stesso momento. Per fare ciò, tuttavia, è necessario essere aperti e disponibili al confronto con l’altro, all’ascolto dell’altro e ad un po’ di negazione di se stessi, perché no…
Buona musica, per una buona causa. Sappiamo che parte degli introiti sono destinati a un progetto importante. Ce lo raccontate?
Quanto ti ho detto prima non poteva che tradursi nella collaborazione con “Fare X Bene Onlus”, un’associazione che si occupa di contrasto alla violenza di genere, alla discriminazione delle categorie sociali più esposte, come minori e donne; di negazione dei diritti di persone con deficit fisico; di educazione dei riferimenti adulti dei ragazzi, come genitori ed insegnanti. E’ un’opera importante e che si declina in mezzo a mille difficoltà. Noi cerchiamo di aiutare, partecipando a loro iniziative pubbliche, ma soprattutto devolvendo loro parte del ricavato della vendita del cd fisico; ecco perché, dal nostro punto di vista, è importante non solo l’ascolto in streaming del nostro lavoro (presente sulle maggiori piattaforme on-line), ma soprattutto l’acquisto del cd “Swinky”, che può avvenire direttamente ai nostri concerti, contattandoci attraverso i nostri social, o presso “Prina Music School” di C.so di P.ta Ticinese a Milano, nostro sponsor e punto di riferimento. Seguendoci su Facebook, Instagram o Twitter, vi terremo aggiornati su altre forme di distribuzione che si stanno concretizzando in questi giorni.
Attorno alla vostra formazione hanno ruotato moltissimi musicisti nel corso degli anni. Quali segni hanno lasciato nel vostro percorso?
In realtà, a tutte le persone che hanno collaborato nei nostri lavori, in studio e dal vivo, siamo legati non solo da amicizia e gratitudine, ma principalmente siamo loro grandi fans. Il gioco però è stato ambivalente: da un lato il loro apporto ha accresciuto la nostra musica, dall’altro, spesso, li abbiamo spinti a misurarsi su un terreno che non è prevalentemente il loro e che gli ha permesso di esprimersi in modo differente. E’ stata a tratti un’esperienza esaltante e che ci ha messo in contatto con persone davvero splendide, prima che artisti meravigliosi.
Chi erano i Mo’ Better Swing degli esordi e chi sono quelli di oggi?
Siamo un gruppo che tiene duro, facendo fronte alle tante difficoltà che presenta fare musica, e più in generale cultura, al giorno d’oggi. Soprattutto siamo una band che ama misurarsi con sempre nuove sfide: siamo partiti vestendo del nostro stile un repertorio di altri, mentre ora abbiamo decisamente sterzato verso una proposta totalmente originale. Ciò che ci piacerebbe per il futuro, anche non lontano, è mettere il background di “Mo’ Better Swing” a disposizione di artisti anche molto lontani dallo swing, penso all’hip-hop, all’indie e, perché no, anche a musicisti classici o alla canzone tradizionale napoletana: sarebbe interessante.