Parliamo di cantautorato e lo facciamo con Max Grassi, nostro ospite oggi su Jam Session 2.0. Il suo cantautorato evoca i deserti americani e una Milano in bianco e nero d’altri tempi. Un’affascinante racconto di vita tra malinconia e felicità.

Il 17 novembre è uscito il disco Bogart Hotel. Mi ha incuriosita subito questo nome. E’ un hotel che esiste davvero? E se sì, perché lo hai scelto?

Sì esiste davvero, a Milano. è un piccolo hotel con una serigrafia sulla porta d’ingresso di un uomo in impermeabile, un Humphrey Bogart che esce da uno dei suoi film. Ogni tanto io e Lorenzo Galletti – che con me ha ‘costruito’ questo Bogart Hote1, giorno dopo giorno – ci torniamo di sera, specialmente in inverno, e rimaniamo qualche minuto a guardarlo dalla macchina; ha un che di magico e magnetico. Un piccolo angolo di Milano rubato alla sceneggiatura stereotipata di un vecchio film noir, rigorosamente in bianco e nero e avvolto nella nebbia. Ma invece è reale ed esiste davvero. Ho scritto di getto la canzone, e ho pensato che sarebbe diventato un luogo perfetto per i personaggi del disco

Queste undici canzoni che compongono l’album rappresentano un po’ delle stanze e in ognuna ci sono storie diverse. Come è nata questa idea?

Dopo aver scritto la canzone Bogart Hotel la struttura del disco ha preso una direzione precisa. le canzoni stilisticamente diverse sono state scartate e abbiamo puntato su canzoni che potessero adattarsi a questo concept: essenziali, dirette e che risolvono in 4 minuti una storia finita, riconoscibile e raccontabile. Ci piace pensare che per questa notte le camere del Bogart Hotel siano abitate da queste persone che hanno voglia e bisogno di raccontarci di loro. Domani probabilmente molte di queste camere saranno libere, in attesa di altre storie

Le canzoni parlano spesso del tempo che passa. Sei un nostalgico?

Se per nostalgico intendiamo che il passato è sempre meglio del presente, no, non mi riconosco in questo. Penso che ognuno di noi si porta dietro per sempre le scelte che ha fatto e la sorte che ha avuto, e  quindi è importante avere consapevolezza di chi sei e da dove vieni. In questo senso sì, sono nostalgico e credo che nelle canzoni, come hai notato, il tempo che passa è spesso un elemento importante che condiziona, anche in positivo, la vita delle persone. Più che nostalgico però mi definirei malinconico, un sentimento che mi appartiene e che credo traspaia in tanti testi di questo disco. Malinconia intesa secondo la definizione che ne dà Victor Hugo: la felicità di essere tristi

Alcune canzoni mi hanno ricordato tantissimo gli Stati Uniti, il deserto e la polvere. Che rapporto hai con la musica americana?

Da punto di vista musicale e delle sonorità mi piace pensare di aver portato qualche ettaro di pianura americana all’interno della nostra pianura, e aver spostato il deserto degli Stati del Midwest sul nostro Appennino. I miei riferimenti sono sicuramente americani (e parliamo di quel cantautorato che ha avuto origine con Dylan, Mellecamp, Springsteen, fino a Jackson Browne, Tom Waits e molti altri) ma altrettanto forte è l’influenza del cantautorato italiano (penso a Fossati, a De André, a Gaber ma anche De Gregori). La lingua italiana è molto subdola, perché se hai come immaginario l’America e questi riferimenti, rende molto complicato riportarne il feeling. ‘Guidavo sull’Autosole verso Roncobilaccio’ è impietosa. Probabilmente lo stesso approccio in inglese apre scenari molto diversi. Quindi l’idea è stata di riportare sensazioni “americane” ma con una costruzione di testo e metrica prettamente italiana. Anzi, tagliando completamente qualsiasi tentazione americaneggiante

Per la realizzazione di questo disco hai collaborato con tanti musicisti professionisti. Com’è stato collaborare con loro? Hanno influenzato le canzoni con i propri stili musicali?

La grande lezione che ho avuto è che sono venuti tutti e si sono messi al servizio del disco e delle canzoni. Da Livio Magnini (che con Lorenzo il disco lo ha anche prodotto), ad Antonio Righetti e Robby Pellati passando per Elio Marchesini, Pepe Ragonese o Michele Monestiroli e gli altri, nessuno, ma proprio nessuno, ha portato (anche musicalmente parlando) un filo di arroganza o di voglia di stupire. Un grazie veramente a tutti

Le tue canzoni sono senza effetti speciali, ma le trovo davvero genuine. Con parole semplici esprimi concetti profondi e comuni (credo) alla maggior parte degli esseri umani. Come ci riesci?

Come mestiere faccio il giornalista e la prima lezione che mi ha dato il mio primo direttore dopo qualche tentativo di stupire con qualche vocabolo ricercato e gratuito è stata: ‘Max, scrivi come se dovesse sempre leggerti una persona semplice e poco istruita’. Non l’ho mai dimenticato. Sui concetti profondi ti posso dire che per me scrivere una canzone risponde ad un’esigenza a cui non posso sfuggire. Come per un pittore con la sua tela o chi alla sera sente il bisogno di trasferire i suoi pensieri e sentimenti in un diario, così io, quando ho qualcosa dentro che mi morde, sento la necessità di buttarlo fuori. Anche per esorcizzare quella sofferenza e renderla “altro”. E quell’altro spesso è una canzone. Molti mi chiedono perché i miei testi sono, per usare un eufemismo, poco allegri. A tutti rispondo che scrivo solo quando sento che qualcosa dentro di me non va. Quando sono felice faccio altro. La privazione è un po’ la madre di ogni mia canzone.

Che cos’è la vita per te?

Aiuto. Potrei darti mille risposte diverse a seconda del momento in cui mi poni questa domanda. Adesso, qui ed ora, ti direi emozione. Un’emozione che vorresti che non finisse mai. Ma proprio la sua natura a termine la rende così preziosa. E poi, condivisione, perché come dico spesso nelle mie canzoni, è vivere insieme agli altri che dà valore alla nostra esistenza

Nelle tue canzoni ho trovato spesso il tema della ricerca della felicità. Tu l’hai trovata?

Scriveva Thomas Mann: ‘La felicità è amare, non essere amati’. Quindi ti dico che sì, sono un uomo felice