Un incontro nato quasi come un’esigenza. Un’idea che parte da un ricordo di purezza, di atmosfere e tinte tenui che diventano musica. È appena uscito Stella Maris, l’album che prende il nome dal progetto realizzato da esponenti illustri del panorama indie italiano. E sono proprio loro a raccontarcelo.
Stella Maris, un progetto che ci riporta negli anni 80, decennio di recente protagonista di molte produzioni cinematografiche e televisive. Cos’è che affascina tanto di quel periodo secondo voi?
Gli anni 80 non sono stati così affascinanti in tutte le arti applicate. Nel cinema infatti hanno rappresentato un periodo molto buio. Anche nella musica è molto facile ricordare la nefandezza dell’avvento di certe sonorità legate ai sintetizzatori e alla loro applicazione becera. In Italia poi grazie alle idee di nota produzione milanese, furono generate tra le più grosse cafonate e brutture che mai si ricordino nella storia della nostra musica. Da quella dance alla musica leggera, alle produzioni sanremesi. È anche vero però che per chi aveva un palato fine e cultura musicale nelle tasche era allo stesso modo semplice riconoscere l’alta qualità che arrivava perlopiù dall’Inghilterra. Gli Stati uniti erano in un decennio di transizione in cui le chitarre erano in un periodo di pausa, che sarebbe poi sfociato a partire dall’89 con il fenomeno grunge. Nel Regno Unito uscivano ogni giorno nuove band e il mercato pulsava come un cuore giovane pregno di sangue bollente.
C’era ancora una sorte di forma pulita sia nel comporre musica, sia nello scoprirla. L’attuale fascinazione di quegli anni secondo me parte da questo presupposto. Si viveva un’epoca moderna, ma guardandoci oggi allo specchio decisamente più ingenua e forse più semplice. Ricordo che di nascosto mi alzavo a notte fonda per guardare su Rai Tre “L’orecchiocchio” una trasmissione in cui si potevano vedere immagini di Rockline, un programma della BBC con le nuove uscite assolutamente inedite per noi poveri italianetti. Anni splendidi e allo stesso tempo decadenti.
I suoni della post new wave incontrano il pop più genuino, con le chitarre al centro della scena. Raccontateci meglio la vostra musica.
La nostra musica parte da due fondamentali elementi che abbiamo discusso prima di partire, prima di scrivere una sola parola o pizzicare con le dita un solo accordo di chitarra. La direzione da prendere, e gli strumenti da usare. Volevamo rispolverare un suono ben preciso dimenticato da tutti, quello della celestialità di un ampli come del Roland jazz chorus 200. Volevamo una voce dolce e sognante che cantasse le pene che ognuno di noi conosce, ma che nessuno nomina. Ho voluto guardare tutto questo dagli occhi di una persona gay, per accentuare una sorte di dolore legato anche all’accetazione di se stessi, in una società distratta, volgare e spesso stupida. Abbiamo accoppiato semplici chitarre acustiche, ma eleganti ad un basso perfetto, sia nel suono che nelle parti. Il cerchio poi si è chiuso con la sezione ritmica suonata in maniera semplicissima ma potente e trascinante. Non occorreva strafare, occorreva autenticità, quello che quasi sempre manca nei dischi che oggi si sentono in giro.
Una poesia semplice, autentica e diretta. Proprio come i sentimenti che raccontate nei vostri brani. Come avete esplorato questi temi così tanto sviscerati nel tempo, ma di cui non ci si stanca mai?
È stato semplicissimo. Basta concentrarsi in ciò che non va, e oggi nel nostro paese nulla va più. La società come tutte le sue rappresentazioni è malata. Un malessere diffuso oramai perso in una direzione di non ritorno. Siamo convintissimi che il futuro non ci riserverà nulla di buono, è un dato certo.
Cinque personalità, cinque percorsi diversi, cinque modi di fare musica che si uniscono in questa nuova sfida. Cosa accomuna ognuno di voi?
La solitudine. Guardarsi attorno e capire che musicalmente tutto fa schifo, ma che tutto va bene lo stesso. Essere increduli dinanzi alla morte della radio, all’assenza più totale di trasmissioni in tv in cui esista buona musica o se non altro un bacino che la contenga. Alla mancanza di una cultura rock purtroppo sempre più rarefatta poiché chi ha meno di 30 anni non sa più niente in materia. Questo ci ha unito tantissimo, come la necessità di divertirci e di stare bene.