Andreotti, classe ‘93, è l’ennesimo cantautore indie-pop del Bel Paese. Nessun volto, nessuna brama di fama personale: la musica è al centro dell’intero progetto.
“1972” è il titolo del suo disco d’esordio, in uscita oggi 11 maggio 2020.
Andreotti con “1972” rievoca la candidatura vincente di quell’anno e ne lancia una nuova, per un inedito ritorno al palazzo: quello della scena indipendente italiana.
L’irriverenza contraddistingue il suo sguardo, che tra elucubrazioni iperboliche, metafore surreali e immagini schizofreniche ritrae la mera depravazione artistica di un folle sognatore.
“Ma forse non ti ho detto che è terribile invecchiare / rompersi i coglioni, essere adulti e non giocare più” canta in “Luis Miguel”, autentica nemesi per i seriosi di tutto il mondo, “Non vorrei ma se vuoi io potrei scodinzolare un po’ / e senza farne una festa, una notte e poi basta / due tette e un uomo fanno sempre pendant”, intona bukowskiano in “Aristogatti”, oppure caustico e senza pietà per certa provincia in “Sassuolo”, quinta traccia del disco: “Mettiamo su una storia / certo un’idea che possa funzionare tipo
addentare un ghiacciolo in centro a Sassuolo / sai potrebbe diventare trendy /
cazzo da Zara fanno il venti”.
E ancora, all’improvviso saturnino e pseudonichilista: “nascondiamoci dai / che il mondo non fa più per noi / da domani ti giuro Cracco Spotify Cannavacciuolo Netflix / guardiamo Stranger Things / al limite fumiamo un po’” recita nel refrain di “Colori”, prima della nostalgia calciofila e assurda di “Lombroso”, in chiusura di album: “Sai cosa intendo quando dico che i gol di Weah mi fanno ancora sognare / che le trentenni incazzate col mondo mi fanno indurire il cane”.
Un sound sfacciatamente “vintage” caratterizza la sua musica, in cui batteria analogica, basso elettrico e string machine d’annata proiettano l’ascoltatore in un’epoca ormai passata: il 1972. Qualcosa sta per cominciare.